Nel 1886 nasce a Catania l’Antologia giuridica, uno dei tanti fogli che diede voce alla scienza del diritto di fine Ottocento e uno dei tanti laboratori che in quegli anni fervidi e inquieti fu animato dalla capacità inventiva di una nuova generazione di giuristi impegnati ad elaborare modelli per la soluzione dei nuovi complessi problemi giuridici, sociali, politici ed economici. L’Antologia fa parte a pieno titolo del panorama della cultura giuridica di fine Ottocento caratterizzato, tra l’altro, anche dal richiamo espresso a quei saperi che il giurista dell’età del positivismo ritiene fondamentali per rifondare lo statuto epistemologico degli studi giuridici: la sociologia, l’antropologia, la criminologia, la demografia, la statistica. La rivista non ebbe mai una dimensione localistica; al contrario, la propensione al confronto, anche al di fuori del ristretto ambito locale e ‘provinciale’, fu nei progetti — almeno — di chi la volle e la diresse. Ma il circolo di giuristi che diede vita alla rivista costituì anche l’élite di una città che alla fine dell’Ottocento fu assunta a modello per lo studio e la ricerca delle soluzioni di difficili e complessi problemi sociali.

Catania: la città «splendidamente lieta».— Occorre allora fermarsi per conoscere — per grandi linee — la città e i problemi con i quali si misurarono, come studiosi e come classe dirigente, i giuristi dell’Antologia.«Con le sue strade diritte lunghissime arieggia Torino, ma ha aspetto più vario e più gaio…» — così Catania appare ad Edmondo De Amicis nel novembre del 1906 — «chi la vede per la prima volta in una giornata serena non si può capacitare che in una città così splendidamente lieta possano infuriare tanto tempestose passioni di parte, combattersi tanto accanite battaglie politiche. Ma non è città industriale e commerciale soltanto: è ricca di istituti di beneficenza, possiede biblioteche cospicue, è sede d’una delle maggiori università d’Italia, in cui sono laboratori rinomati di chimica e di fisica, d’anatomia e di zoologia, e rinomatissimi di geologia e mineralogia; ed è fra i primi d’Europa, visitato da scienziati d’ogni paese, il suo osservatorio astronomico…».
Nel giro di vent’anni, dal 1880 al 1900, il numero degli abitanti di Catania passa da 98.000 a 150.000. Nello stesso arco di tempo la città è segnata dai vivaci fermenti che animano l’economia, la politica, la cultura. Lo zolfo, gli agrumi, i mulini, il porto e la ferrovia sono i pilastri della nuova economia cittadina che si affiancano alla tradizionale lavorazione tessile. Il commercio e l’industria — poli di progetti alternativi di sviluppo — vivono entrambi, ma più l’industria che non il commercio, un momento di grande espansione, dopo le crisi importanti del colera nel 1887, della spedizione coloniale, della vertenza commerciale con la Francia, della rivoluzione dei fasci siciliani. Mentre nel resto della Sicilia l’emigrazione è in aumento, a Catania, invece, si assiste a una crescente immigrazione: giungono da fuori in cerca di fortuna operai e piccoli artigiani, ma anche, attratta dalle nuove possibilità di ricchezza, una piccola e vivace comunità di imprenditori svizzeri forte di capitali e di capacità di intrapresa. Se Mario Rapisardi con la sua poesia civile e i suoi studi si ferma sulle condizioni di una nuova classe operaia, Giovanni Verga guarda agli effetti del ‘progresso’ sugli umili e Luigi Capuana teorizza, filtrando a suo modo Zola e De Sanctis, una letteratura fortemente influenzata nella forma dal positivismo e dal naturalismo, caratterizzata dall’osservazione scientifica, quindi impersonale, del microcosmo mitopoietico. Le emergenze tutte ‘moderne’ di una situazione sociale travagliata da ricchezze e miserie — quelle nuove che si aggiungono alle vecchie — trovano nella caritatevole assistenza del cardinale Benedetto Dusmet un rimedio ammirevole, ma insufficiente e strutturalmente inadeguato. Sul palcoscenico della politica, alla ricerca di nuovi equilibri imposti dal mutato contesto sociale si muovono da protagonisti: Antonino Paternò Castello di San Giuliano, il marchesino che nel 1879, a ventisette anni, diviene sindaco della città, assunto a campione dell’aristocrazia trasformista per il ritratto che Federico De Roberto darà di Consalvo Uzeda nei Viceré del 1894; Giuseppe De Felice Giuffrida, il potentissimo e popolarissimo tribuno interprete di un originale socialismo siciliano; Angelo Majorana, esponente di punta della democrazia liberale e impegnato studioso di diritto, sensibile e attento verso le nuove suggestioni che provengono dalla sociologia.
Il dinamismo che caratterizza tutti gli aspetti della società cittadina, le soluzioni che dalle diverse parti si prospettano per governare tale dinamismo, la stessa città, finiscono per essere assunti al rango di modello. Un modello che ciascuno dei protagonisti — nel bene e nel male, in una visione ottimistico-propositiva o in una concezione pessimistico-rinunciataria, che ha in sé qualche eco di ‘sicilitudine’ — vuole proporre e affermare a livello nazionale nell’ambito del proprio ‘giro’ culturale e politico.

L’Università: gli anni della rifondazione.— Nella vita dell’ateneo catanese il 1885 è l’anno della svolta, dell’inversione di tendenza. Il governo di Garibaldi, con il decreto prodittatoriale n. 274 del 19 ottobre 1860, aveva riordinato gli studi riconoscendo autonomia agli atenei siciliani e attribuendo al rettore e ai presidi di facoltà, ora eletti all’interno delle stesse, la direzione didattica e amministrativa. Il decreto garibaldino assegnava un contributo di sei milioni di lire ai tre atenei (tre milioni a Palermo, un milione e mezzo a Messina e a Catania), ma solo dopo molti anni, con la legge 384 del 13 luglio 1905, il governo nazionale avrebbe onorato l’impegno assunto con il decreto e si sarebbe finalmente chiusa l’annosa vicenda.
Negli ultimi decenni del governo borbonico la concorrenza dell’ateneo palermitano fondato nel 1806 e la mancanza di mezzi economici avevano spinto in una crisi profonda l’antico Studium catanese la cui fondazione risaliva al Quattrocento. Con l’apertura di Palermo, Catania aveva ormai una capacità di attrazione solo locale, municipale; l’impegno antiborbonico di molti docenti, inoltre, aumentava il disinteresse del governo per le vicende dell’università catanese.
La comunità etnea non subì passivamente la crisi dell’istituzione universitaria. La composita realtà universitaria preunitaria impegnava il nuovo legislatore nazionale nello studio e nella soluzione di importanti problemi del mondo universitario. Argomento cruciale del dibattito era il rapporto tra l’università e il nuovo stato italiano, rapporto che da taluni si disegnava in termini più o meno marcati di autonomia e da altri, invece, in termini di dipendenza da un’amministrazione centrale e accentratrice. Il pluridecennale travaglio legislativo procede così cercando di contemperare l’esigenza di uniformare, o quanto meno di ricondurre ad un unico modello nazionale, realtà che per una lunga tradizione erano profondamente diverse, con l’esigenza, altrettanto avvertita, di rispettare, nell’ambito del rapporto stato — autonomie, le diverse tradizioni delle istituzioni universitarie. Si interviene per fare ordine e chiarezza nei patrimoni delle università; per disciplinarne il numero e il livello di importanza, per fissare i termini della libertà di insegnamento, per disegnare le guarentigie dei docenti.
Nel 1877 un consorzio per sostenere l’università di Catania è promosso da comune e provincia ed è istituito con R.D. del 5 aprile 1877 dal ministro Coppino; nel 1885, il 13 dicembre, la legge 3570 pareggia l’università catanese a quelle di prima classe. Per le sorti dell’ateneo si impegnano nelle aule parlamentari i deputati Angelo Majorana, Giuseppe Carnazza Amari (poi anche senatore), Antonino Paternò Castello di San Giuliano e i senatori Salvatore Marchese e Salvatore Majorana Calatabiano: tutti, ad eccezione di San Giuliano, professori (quando non anche presidi della facoltà giuridica o rettori) nell’università catanese, membri dell’élite urbana che ha nell’università uno dei centri in cui meglio riconosce e afferma la propria identità di classe dirigente.
Nel ventennio che segue il pareggiamento dell’università catanese agli atenei di prima classe, cioè dal 1885 al 1905, grazie anche al graduale miglioramento delle condizioni economiche dell’università, la facoltà di giurisprudenza raddoppia il numero dei suoi professori: il numero degli ordinari sale da cinque a dieci, quello degli straordinari da due a cinque. Variano anche il piano degli studi e la distribuzione degli insegnamenti nei quattro anni di corso.

I professori: fortune accademiche, professionali, politiche.— In questi anni di rifondazione la facoltà di giurisprudenza si apre verso gli apporti esterni di studiosi forestieri che vengono a Catania per aver vinto un concorso a cattedra. Biagio Brugi è il primo, lo seguiranno negli anni e nei decenni successivi Pietro Delogu, Giuseppe Mazzarella, Federico Flora, Nicola Coviello, Federico Ciccaglione, Benvenuto Griziotti, Francesco Carnelutti, Tullio Ascarelli, Francesco Calasso, Mario Chiaudano, Guido Astuti, Francesco Santoro Passarelli, solo per citare alcuni tra quelli che si trasferirono definitivamente a Catania e tra quelli che vi rimasero solo per un breve periodo.
Ma nell’ultimo scorcio del secolo XIX i professori della facoltà sono tutti o quasi catanesi e sono espressione diretta delle famiglie più in vista della città: esemplare è la vicenda dei Carnazza e dei Majorana. Entrambe le famiglie hanno avuto un ruolo determinante nei moti rivoluzionari preunitari e nel complesso processo di unificazione, entrambe le famiglie — forse i Majorana con più consapevolezza e lucidità dei Carnazza — costruiscono le loro fortune accademiche, professionali e politiche attraverso un modello educativo aperto ad apporti esterni, agevolati per i Carnazza dai matrimoni con donne di area germanica, e attraverso una fitta rete di rapporti coltivata con sapiente lungimiranza.
I cugini Giuseppe Carnazza Puglisi (Catania 1834 — 1910) e Giuseppe Carnazza Amari (Palermo 1837 — Catania 1911) sono figli di due fratelli, Gabriello (Catania 1809 — 1880) e Sebastiano (Catania 1811 — 1891). Gabriello e Sebastiano hanno lottato per gli ideali repubblicani e unitari, hanno subìto la galera e l’esilio sotto il regno borbonico, non hanno ceduto alle allettanti lusinghe della dinastia meridionale e nel nuovo regno hanno raccolto i frutti della loro battaglia politica: dopo l’unità Gabriello è procuratore presso la Gran Corte civile di Catania e professore di diritto costituzionale nell’università etnea, Sebastiano è deputato al parlamento.
Dal matrimonio di Sebastiano con Grazia Amari, sorella di Emerico, nasce Giuseppe, personaggio di spicco dell’entourage politico di Antonino di San Giuliano, ordinario di diritto internazionale dal 1880, dal 1884 deputato per quattro legislature nelle file della sinistra moderata, dal 1892 senatore, preside della facoltà giuridica catanese. Gabriello sposa la cugina Venera Puglisi: dalla loro unione nasce Giuseppe Carnazza Puglisi, ordinario di diritto commerciale dal 1863, deputato, sindaco di Catania, senatore dal 1900, preside della facoltà giuridica e rettore dell’università etnea.
Salvatore Majorana Calatabiano (Militello 1825 — Catania 1897) — ordinario di economia politica dal 1865, deputato dal 1866 al 1879, senatore dal 1879, più volte ministro dell’agri¬coltura nel ministero Depretis — è il capostipite dell’altra dinastia che segna le vicende politiche e accademiche catanesi. Anche Salvatore, come Gabriello e Sebastiano Carnazza, è attivo nei moti rivoluzionari del 1848 tra le file dei democratici liberali siciliani. Tra i figli di Salvatore possono qui ricordarsi Giuseppe, Angelo, e Dante. Giuseppe (Catania 1863 — 1940), è ordinario di economia politica dal 1893, deputato ai primi del Novecento, preside per più mandati, rettore dal 1912 al 1918, dal 1924 senatore. Angelo (Catania 1865 — Roma 1910) è ordinario di diritto costituzionale dal 1889, rettore, prosindaco, dal 1897 deputato per quattro legislature tra le file dei liberali, ministro delle finanze e del tesoro nei ministeri Giolitti, Tittoni e Fortis. Dante (Catania 1874 — 1955), ordinario di diritto amministrativo dal 1931, sarà preside della facoltà dal 1943 al 1944 e rettore dal 1944 al 1947 .
Protagonisti — spesso su fronti opposti — della vita politica cittadina, intellettuali impegnati in distinti e alternativi progetti di sviluppo economico-sociale per la città, deputati, senatori, ministri, i Carnazza e i Majorana si avvicenderanno negli ultimi anni dell’Ottocento anche nelle cariche di preside della facoltà giuridica e di rettore: e anche nella facoltà e nell’università si avvertirà più di un’eco dell’aspro conflitto tra le due famiglie. Insieme con loro alcuni professori della facoltà — Pietro Delogu e Giuseppe Vadalà Papale più di tutti, e altri di cui si dirà più avanti —, sono attivi protagonisti di quell’«infuriare di passioni» politiche che ancora nei primi anni del Novecento impressionò De Amicis e avvertono, da intellettuali consapevoli, di poter contribuire al vivacissimo dibattito nazionale che in quegli anni impegna i giuristi italiani.

La scheda.— Proprio quando nella città etnea più forte è l’«infuriare delle passioni» politiche — e si confrontano i nuovi modelli di soluzione delle altrettanto nuove emergenze sociali — nasce, su iniziativa di Pietro Delogu, romanista sardo ma catanese di adozione, l’Antologia giuridica. Il primo numero dell’Antologia è pubblicato a Catania nell’aprile del 1886 sotto la direzione del fondatore per i tipi di Francesco Martinez. Con cadenza mensile, quasi sempre rispettata, l’Antologia esce fino al marzo del 1888 (fasc. 12 della seconda annata) per riprendere poi la pubblicazione a dicembre dello stesso anno (fasc. 1 della terza annata). Nell’ultimo numero della terza annata (fasc. 9-12, agosto-novembre 1889) in ultima di copertina si avverte che «nel corrente maggio» — ma il numero è quello di agosto-novembre, quindi il fascicolo dovrà essere uscito con ritardo — «il periodico riprenderà con scrupolosa esattezza le pubblicazioni mensili con riforme, che riguarderanno la redazione e la edizione, che fra non guari annunzieremo». E in effetti la quarta annata della rivista comincerà dal maggio del 1890 (fasc. 1) e si chiuderà con il fascicolo 8-12 (dicembre 1890-aprile 1891): si conclude così la direzione di Pietro Delogu. Dal primo fascicolo della quinta annata (giugno 1891) l’Antologia è diretta da Gabriello Carnazza e da Calogero Costanzo Peratoner. Insieme con la direzione cambia anche il tipografo: la Reale tipografia Pansini prende il posto di Francesco Martinez che sin dall’inizio, con qualche interruzione forse solo annunciata o minacciata, aveva curato la stampa della rivista. Sotto la direzione di Carnazza e di Costanzo Peratoner l’Antologia uscirà regolarmente con cadenza mensile e, dal primo fascicolo dell’ottava annata (giugno 1894), la redazione sarà affidata stabilmente a Giuseppe Fiamingo.
L’Antologia esce fino all’ottobre-dicembre 1896. Dal 1896 al 1903 non si hanno notizie sui motivi della sospensione della pubblicazione che riprende solo per un breve periodo nel 1904.
Ciascuno dei fascicoli che con cadenza mensile scandiscono la pubblicazione dell’Antologia si articola in una prima sezione, senza titolo, in cui sono ospitati gli articoli, quasi sempre tre, e poi nelle consuete sezioni ‘Note di giurisprudenza’, ‘Massimario (civile penale commerciale)’, ‘Cronaca’, ‘Bibliografia e critica’, ‘Bollettino bibliografico’. È una suddivisione assai ricorrente nelle riviste giuridiche dell’Ottocento italiano e rende evidente l’attenzione dell’Antologia per la ricerca scientifica e per il dibattito culturale da un lato, per il mondo forense e professionale dall’altro: attenzione per due distinte dimensioni del diritto che le riviste giuridiche e i giuristi ottocenteschi hanno spesso saputo accomunare nella visione unitaria della scienza giuridica e dei suoi compiti.
Certamente l’Antologia giuridica non può considerarsi una rivista-progetto: non lo è perché non si impegna nel sostenere o nel diffondere un dichiarato progetto culturale, perché non è il foglio di una scuola, perché non aderisce organicamente a una delle correnti che compongono il variegato panorama della scienza giuridica italiana tra Ottocento e Novecento. È piuttosto un raccoglitore composito, aperto con stile elegante e rispettoso agli studiosi dei diversi orientamenti: più frequenti sono senza dubbio i contributi dei professori della facoltà giuridica etnea, ma non raramente firmano i loro saggi studiosi di altri atenei (tra questi alcuni docenti che hanno insegnato a Catania e Palermo e si sono poi trasferiti altrove) o cultori di altre scienze sociali, o giuristi che a vario titolo (magistrati, avvocati), gravitano intorno alla facoltà giuridica. Eco del foro sono le sezioni dell’Antologia intitolate ‘Note di giurisprudenza’ (spesso curata da Delogu), ‘Massimario civile e commerciale’, ‘Massimario penale’, ‘Massimario amministrativo e finanziario’.
Se non un progetto, l’Antologia ha forse un profilo che affiora talvolta debolmente, talaltra in modo netto. Disegnano questo profilo, anzi questi profili, non tanto i contributi ospitati nella rivista che — come si è già anticipato — non sono di segno omogeneo, quanto piuttosto le recensioni, curate dai direttori o da studiosi che con assiduità collaborano alle riviste. Si è detto profili al plurale, perché i collaboratori della rivista hanno orientamenti variegati.
Sull’Antologia Biagio Brugi, Ippolito Santangelo Spoto, Gabriello Carnazza, Calogero Costanzo Peratoner, Giuseppe e Angelo Majorana, Mario De Mauro, Giuseppe Fiamingo, Antonio Zocco Rosa, Pietro Delogu firmano le recensioni con una continuità che rende visibile il segno di questi giuristi: l’apertura verso i nuovi studi sociologici dei Majorana e di Fiamingo, l’arroccamento romanocentrico e la sensibilità per i temi giuscommercialistici di Carnazza, la moderazione e il buon senso di Delogu, la curiosità e l’attenzione ai temi economici di Santangelo Spoto, la fedeltà alla Scuola classica di De Mauro, l’ancoramento di Brugi al diritto romano.
Per quanto riguarda l’Antologia, poi, deve aggiungersi che molti degli uomini che collaborano assiduamente alla rivista sono fautori, sul piano politico locale, di uno dei modelli che alla fine dell’Ottocento si confrontano a Catania per la soluzione delle nuove emergenze sociali. E Carnazza, Delogu, Majorana, sono gli esponenti di punta dell’area moderata che nella città fronteggia le proposte socialiste di De Felice Giuffrida e Colajanni proprio nei primi anni Novanta, tormentati da rivolte culminate nella dichiarazione crispina dello stato d’assedio. Se un profilo generale — tra i tanti, particolari, che emergono dalle pagine dell’Antologia — deve tratteggiarsi, non stupisce che questo profilo sia improntato a moderazione, con toni a volte più marcatamente conservatori, a volte più apertamente attenti alle istanze dei novatori.

Anni fertili tra codici e «fantasmagoria di leggi».— Il lungo e ripetuto riferimento alle riviste di sociologia riconduce ai luoghi in cui presero corpo e si definirono concetti e termini che furono poi utilizzati nelle strategie discorsive dei giuristi; ai luoghi, cioè, in cui il giurista attinse all’antropologia, alla sociologia, alla psicologia sociale, alle nuove discipline che contribuirono a fondare e costituire l’immaginario sociologico e antropologico del giurista di fine Ottocento; ai luoghi in cui il giurista trovava risposte ad alcune sue domande, per esempio a quelle sull’origine della società e dello stato, della famiglia e dei gruppi sociali in genere.
La rivista ci riconduce al fertilissimo clima culturale dell’ultimo scorcio del secolo XIX.
L’abbandono delle ‘metafisicherie’ — e il prorompere, anche nelle scienze sociali, del metodo e degli strumenti che il positivismo aveva collaudato nelle scienze naturali —, contribuisce ad avviare i giuristi, almeno i giuristi che vogliono seguire questa strada, verso una nuova consapevolezza del proprio ruolo di intellettuali. Essi si liberano del pesante fardello che li zavorra e li ha sprofondati nel «pantano di una esegesi grettamente servile»e si volgono a disegnare un futuro «veramente futuro». Il decennio tra il 1886 e il 1896 — cioè il decennio in cui vive l’Antologia giuridica e che costituisce il limite temporale di questa ricerca — è scandito da momenti fondamentali per la scienza giuridica italiana, già da qualche anno attraversata da una grande crisi. La crisi è stata innescata da alcuni coraggiosi, talvolta entusiastici (e non di rado ingenui) interventi di giovani studiosi che, apertisi ai nuovi orizzonti metodologici del positivismo, propugnano una svolta decisa riguardo agli itinerari, agli strumenti e agli obiettivi per i quali i giuristi devono impegnarsi. Al 1881 risalgono la prolusione romana di Enrico Cimbali e quella bolognese di Enrico Ferri: le due opere assumono il valore di manifesto della nuova scienza civilistica e penalistica, che vuole rifondarsi su un metodo largamente tributario nei confronti del positivismo, e inaugurano due ‘progetti’ che, comunque, non potranno essere ignorati dai giuristi che negli anni successivi si occuperanno di diritto civile e di diritto penale. Del 1882 è il nuovo codice di commercio e del 1889 il nuovo codice penale e l’istituzione della quarta sezione del consiglio di stato, del 1886 è la prima legge sul lavoro dei fanciulli, solo per citare alcuni ‘momenti’ che scandiscono questi anni fertili. Il dibattito serrato dell’ultimo ventennio dell’Ottocento si sviluppa anche, forse soprattutto, attraverso interventi puntuali dei giuristi, quali articoli, recensioni, prolusioni e prelezioni, strumenti agili che i giuristi prediligono perché permettono loro di «parlar di questioni generali e fondamentali senza seppellirle all’interno di illeggibili trattazioni paludate». Gli interventi investono tutti i campi del diritto, riguardano la metodologia dello studio del diritto — e qui il frequente ricorrere del termine evoluzione si spiega da solo —; il contenuto e la funzione sociale della legislazione civile; l’emergenza nel mondo del lavoro di una nuova concezione della responsabilità e del contratto di locazione d’opera; l’opportunità di un’unica regolamentazione delle obbligazioni contro insopportabili nicchie di privilegi; il ripensamento ab imis fundamentis del diritto pubblico.