RADIES

 

29 - 31 Ottobre 2008
Catania - Ragusa

CATANIA:

Facoltà di Lettere
Auditorium "G. De Carlo"
Rettorato
Aula Magna
Facoltà di Giurisprudenza
Aula Magna

RAGUSA:
Camera di Commercio
Auditorium

 
sei in: Testimonianze

 

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La legislazione razziale e il progetto del nuovo codice civile, sempre secondo la testimonianza di Galante Garrone, impongono una riflessione: gli anni compresi tra il 1933 e il 1938 erano caratterizzati «per gli uomini di legge del nostro paese, dall’incontrastato sovrastare del principio della “certezza del diritto” (o, come anche si diceva, della “sicurezza del diritto”) su quello del “diritto libero”, o del diritto “caso per caso”, che già da qualche decennio era stato ventilato da alcune dottrine straniere, specialmente tedesche, e che da noi, all’indomani della prima guerra mondiale, aveva avuto solo qualche timido, non inquietante accenno di realizzazione nelle “giurisdizioni di equità”, e invece un largo accoglimento nella Russia sovietica. In Italia il giudice era, doveva essere il subditus legum: questa era la regola pacificamente accettata dai più. Contro le inframmettenze del potere, e l’arbitrio e la prepotenza, e l’invadenza dell’amministrazione o del governo o del partito dominante, lo schermo della legge rigorosamente applicata diventava, per il giudice di coscienza, uno scudo protettivo. Quante volte, nel corso di quel mio primo periodo, dal 1933 al 1938, fu facile resistere alle ingiustizie accampando la inesorabile volontà delle leggi che eravamo tenuti ad applicare nei confronti di tutti i cittadini!... Per noi giudici, credenti nella serietà del proprio mestiere, la difesa a oltranza della legge vigente diventava sempre più un punto d’onore, una ragione d’essere, una inattaccabile giustificazione di fronte a qualsiasi insidioso tentativo di menomazione della nostra indipendenza. La difesa della “legalità”, che in passato era un fatto istintivo, quasi automatico per ogni giudice, si tramutava così a poco a poco, insensibilmente, in un’affermazione polemica, che non richiedeva (per le ragioni già dette) una particolare forza d’animo. Insomma, quella difesa non era ancora una sfida temeraria, una dura battaglia, ma una regola imprescindibile di comportamento, di cui si cominciava ad avvertire il valore, come un’arma che si doveva brandire, e nella quale si intuiva risiedere la giustificazione morale e civile del proprio lavoro. Un comportamento non eroico, che non ci espose mai, come giudici, a preoccupanti conseguenze; ma almeno dignitoso» (Alessandro Galante Garrone, Amalek, cit., pp. 142-143).

 

 

data ultima modifica: 03/07/2008

 

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